IL TRIBUNALE Ha emesso la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al numero del ruolo generale n. 213/2005 e promossa da: Convertino Sante, rappresentato e difeso dagli avv.ti Angela Matarrese e Maurizio Sansone, attore; Contro Banca Antoniana popolare Veneta S.p.A., rappresentata e difesa dall'avv. Alfredo Carrozzini, convenuta. Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 18 aprile 2005 il sig. Convertino Sante conveniva in giudizio la Banca Antoniana Popolare Veneta S.p.A. chiedendo che fosse rideterminato il saldo del conto corrente n. 2741/R, acceso in data 11 aprile 1994, sino alla data dell'ultima operazione avvenuta il 29 dicembre 1998; in particolare, chiedeva che i conteggi fossero riformulati tenendo conto dell'ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale circa la nullita' della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi e della c.m.s., affinche' la banca fosse condannata alla restituzione dell'indebito versato. Costituitasi in giudizio, la banca convenuta contestava le eccezioni e le richieste attoree, concludendo per il rigetto integrale della domanda ed opponendo, preliminarmente, la liceita' della capitalizzazione trimestrale degli interessi e, quindi, l'eccezione di prescrizione estintiva. Nel corso del giudizio, precisate le domande ed avanzate le richieste istruttorie nei termini concessi ai sensi degli arti. 183 e 184 c.p.c. (ante novella), questo G.U., sciogliendo la riserva assunta all'udienza del 20 luglio 2007, riteneva doversi procedere al ricalcolo del saldo. Veniva depositato elaborato peritale contenente il ricalcolo effettuato dal consulente, alla stregua dei criteri di cui all'ordinanza ammissiva della ctu. Ritenuta la causa matura per la decisione, si rinviava all'udienza del 10 marzo 2011 per la discussione orale ex art. 281-sexies c.p.c., concedendo termine alle parti fino a 10 giorni prima dell'udienza per il deposito delle presenti note conclusive. Motivazione Questo Giudice ritiene sussistenti i presupposti per sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 61, della Legge n. 10 del 2011, di conversione del decreto Milleproroghe (D.L. 29 dicembre 2010 n. 225). Il testo cosi' recita: «In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l'art. 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi gia' versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge». a) La rilevanza della questione nel caso di specie In primis, sotto il profilo della rilevanza della norma de qua, ai fini del thema decidendum, non vi e' dubbio che la natura assertivamente interpretativa della stessa, unitamente all'eccezione di prescrizione, sollevata da parte convenuta, ne impongano l'applicazione nel caso concreto. Pertanto questo Giudice, dovendosi pronunciare su tale eccezione, non puo' prescindere dall'esame della norma stessa. b) Non manifesta infondatezza della questione L'art. 2-quinquies, comma 9, della legge n. 10 del 2011, secondo il Giudice remittente, e' affetto da molteplici profili di incostituzionalita'. Invero, da un lato, difettano le condizioni necessarie per l'esercizio del potere di legislazione, con funzione interpretativa e, quindi, con efficacia ex tunc; dall'altro, la norma impugnata e' idonea a compromettere i principi cardine del nostro sistema di diritto. In particolar modo risultano violati i principi di ragionevolezza, di effettivita' del diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24, primo comma, Cost.); d'integrita' delle attribuzioni costituzionali dell'autorita' giudiziaria (art. 102 Cost.), ed, ancora, il principio del giusto processo, cosi' come l'art. 117 Cost., in materia di rispetto degli obblighi assunti sul piano internazionale, con la sottoscrizione della CEDU. Cio' premesso, al vaglio della Corte costituzionale vanno rimessi i seguenti motivi di incostituzionalita' della legge de qua: 1. - Violazione dei limiti, individuati dalla Corte costituzionale, all'ammissibilita' di una legge d'interpretazione. Deve premettersi una breve ricostruzione dei limiti, esplicitati dalla Corte costituzionale, all'esercizio del potere legislativo, allorquando la norma assuma natura interpretativa e, quindi, efficacia retroattiva. Come noto, il legislatore puo' adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull'applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche «quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con cio' vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore» (sentenza n. 525 del 2000; in senso conforme, ex plurimis, sentenze n. 374 del 2002, n. 26 del 2003, n. 274 del 2006, n. 234 del 2007, n. 170 del 2008, n. 24 del 2009). Orbene, tale condizione non appare rispettata nel caso di specie. 1.1. Inesistenza di una norma (specifica) da interpretare, quale condizione dell'esercizio del potere di legislazione a fini interpretativi (e conseguente irragionevolezza della norma de qua). L'art. 2935 c.c. prevede una regola di carattere generale, ovvero quella secondo cui il dies a quo, ai fini della prescrizione di un diritto, decorre dal momento in cui il suo titolare e' posto nelle condizioni di poterlo esercitare. Come noto, ai fini dell'applicazione della suddetta norma rileva la sola possibilita' giuridica di esercitare un diritto - secondo le regole previste, per le varie ipotesi tipiche, dall'ordinamento - e non anche una possibilita' di mero fatto. La previsione de qua, che e' inidonea a esaurire la disciplina dei singoli diritti soggettivi e della loro (eventuale) estinzione per prescrizione, necessita dell'etero-integrazione della disciplina speciale prevista per i singoli tipi contrattuali, cosi' come dei principi generali in materia di adempimento delle obbligazioni e di ripetizione d'indebito. Nel caso di specie, le norme - etero integratrici devono essere individuate nella disciplina: a) delle operazioni bancarie. Tali devono considerarsi, in virtu' dell'univoco disposto dell'art. 1852 c.c. l'apertura di credito, il deposito bancario, definiti implicitamente come tali dall'art. 1852 c.c. cosi' come ogni altra relazione tra banca e cliente che sia ascrivibile agli schemi delineati dal Codice Civile o affermatisi in sede interpretativa. b) del conto corrente bancario. In primis, non vi e' dubbio che una legge d'interpretazione autentica avrebbe dovuto (e potuto) avere ad oggetto solo e soltanto una norma che disciplinasse di per se', in maniera specifica, la decorrenza della prescrizione con riguardo al contratto di apertura di credito, regolato in conto corrente, selezionandone una delle possibili opzioni esegetiche. Per contro, tale norma non esisteva, provvedendo gli interpreti a colmare la lacuna, derivante dall'assenza di una norma speciale, con l'applicazione di una norma generale, dei principi desumibili dalla disciplina specifica delle singole fattispecie contrattuali qualificabili come «operazioni bancarie», cosi' come dei piu' generali principi in materia di estinzione del rapporto obbligatorio e di condictio indebiti Dunque, il principio generale (desumibile dall'art. 2935 c.c.) veniva adattato allo schema e alla funzione del singolo contratto bancario (ed, in primis, dell'apertura di credito), avendo cura di preservare la coerenza sistematica della soluzione interpretativa prescelta. 1.2. - Non includibilita' della soluzione interpretativa prospettata tra quelle legittimamente traibili dalla disciplina complessiva dell'istituto (e conseguente irragionevolezza della norma de qua). Per quanto il contratto di apertura di credito, cosi' come il contratto di deposito, ecc., siano connotati dall'esecuzione ripetuta di piu' prestazioni, conservano il loro carattere unitario, rappresentando la serie di versamenti, prelievi ed accreditamenti mere variazioni quantitative dell'unico originario rapporto. Invero, l'unitarieta' del rapporto giuridico derivante dal contratto di conto corrente bancario - come, condivisibilmente, evidenziato dalle Sezioni Unite del 2 dicembre 2010 - non e' circostanza di per se' sufficiente, al fine d'individuare, nella chiusura del conto, il dies a quo da cui far decorrere il dies a quo della prescrizione del diritto alla ripetizione d'indebito che spetti, eventualmente, al correntista nei confronti della banca. Esistono, infatti, ipotesi tipiche nelle quali, pur in presenza di un rapporto di durata connotato da prestazioni in denaro ripetute e scaglionate nel tempo (es. corresponsione dei canoni di locazione o d'affitto, oppure del prezzo nella somministrazione periodica di cose), il singolo pagamento puo' qualificarsi come indebito sin dal momento in cui il pagamento medesimo abbia avuto luogo; con conseguente immediato sorgere del diritto del solvens alla ripetizione. Nondimeno, esistono ragioni, non solo sistematiche ma desumibili dall'intima struttura e funzione dei contratti bancari, che depongono per la decorrenza del dies a quo dalla chiusura del contratto di conto corrente. Innanzitutto, - come sottolineato dalla Suprema Corte nella pronuncia richiamata - l'insorgere dell'azione di ripetizione d'indebito presuppone logicamente, quale suo indefettibile presupposto, che sia stato effettuato un pagamento d'indebito. E, solo da tale momento temporale, essa e' soggetta a prescrizione, non potendosi prescrivere cio' che ancora non sia sorto. Da cio', la necessita' di individuare, alla stregua dei principi generali, nonche' della disciplina di settore, quando il versamento del correntista costituisca un pagamento e lo stesso possa essere definito indebito. Per quanto riguarda, in special modo, l'apertura di credito (quale tipologia contrattuale di peculiare diffusione), essa, come si evince dal combinato disposto degli artt. 1842 e 1843 c.c., si attua mediante la messa a disposizione, da parte della banca, di una somma di denaro. Il cliente, per l'intera durata del rapporto, puo' utilizzare tale somma anche in piu' riprese, ripristinandone in tutto o in parte, la disponibilita', eseguendo versamenti e conseguenti ulteriori prelevamenti, entro il limite complessivo del credito accordatogli. E' ovvio che, se, in pendenza dell'apertura di credito, il correntista non abbia operato alcun versamento, non e' configurabile alcun pagamento da parte sua, se non quando, chiuso il rapporto, egli provveda a restituire alla banca il denaro in concreto utilizzato. In tal caso, qualora la restituzione abbia ecceduto quanto giuridicamente dovuto a causa dell'addebito di somme non dovute (come interessi anatocistici o superiori al tasso legale), l'eventuale azione di ripetizione d'indebito non potra' che essere esercitata in un momento successivo alla chiusura del conto. Pertanto, solo da quel momento potra' decorrere il relativo termine di prescrizione. Qualora, invece, nel corso dello svolgimento del rapporto il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti ma anche versamenti, questi ultimi potranno essere considerati come pagamenti, idonei a fondare il diritto alla ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l'effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca. Cio' accadra' solo quando si tratti di versamenti eseguiti su ut», conto in passivo, cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, oppure siano stati superati i limiti dell'accreditamento. Per contro, quando il passivo non abbia superato il limite dell'affidamento concesso al cliente, i versamenti da questi posti in essere, fungeranno unicamente da atti ripristinatori della provvista di cui il correntista puo' ancora continuare a godere (cfr. in primis Cass. Sez. Unite del 2 dicembre 2010, Cass. 18 ottobre 1982, n. 5413; Cass. novembre 2007, n. 23107; Cass. 23 novembre 2005, n. 24588). In tale ipotesi, il versamento non ha funzione solutoria del mutuo, bensi' di mera riespansione della misura dell'affidamento utilizzabile nuovamente in futuro dal correntista. Non e', dunque, un pagamento, perche' non soddisfa il creditore ma amplia (o ripristina) la facolta' d'indebitamento del correntista; e la circostanza che, in quel momento, il saldo passivo del conto sia influenzato da interessi illegittimamente fin li' computati si traduce in un'indebita limitazione di tale facolta' di maggior indebitamento, ma non nel pagamento anticipato di interessi. In tal caso, la fattispecie dell'adempimento, sub specie di pagamento, sara' configurabile soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia preteso e ottenuto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi somme e competenze non dovute. Pertanto, in armonia con i principi generali in materia di adempimento e di ripetizione d'indebito, e con quelli relativi alla causa del contratto de quo, la decorrenza della prescrizione deve essere individuata: a) nel versamento (nell'ipotesi di conto in passivo, senza affidamento, cosi' come di superamento del limite affidato); b) nella chiusura del rapporto (quando non siano effettuati versamenti, in pendenza di rapporto, o quando il versamento, effettuato in pendenza di rapporto, abbia funzione meramente ripristinatoria dell'affidamento). Percio', all'atto di emanazione del Decreto Milleproroghe e della sua conversione in legge, tra le possibili opzioni ermeneutiche dell'art. 2935 c.c. e della disciplina della materia, non vi era, ne' avrebbe potuto esserci anche quella fatta propria dalla disposizione censurata. D'altronde, l'esclusione dell'interpretazione censurata dal novero di quelle ammissibili, deriva anche dalle seguenti considerazioni. Il legislatore ha deciso di far decorrere il dies a quo da una circostanza di fatto (l'annotazione in conto) che esula dalla sfera conoscitiva del cliente, il quale e' reso edotto delle movimentazioni del proprio conto, solo con la ricezione dell'estratto conto (primo atto con cui si attua il valore della conoscibilita' delle competenze annotate in proprio favore dalla Banca). Pertanto, chi non ha avuto conoscenza (ne' avrebbe potuto conoscere) dell'esistenza di addebiti in proprio sfavore, perche' semplicemente annotati in conto e non anche comunicati, non e' nelle condizioni giuridiche di esercitare qualunque pretesa restitutoria o di altra natura. 2. Violazione del princio di azione ex art. 24 cost. E' evidente il contrasto con il principio di azione ex art. 24 Cost. nella parte in cui si prescrive che: «In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l'art. 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa». Il legislatore fa decorrere (peraltro, con efficacia retroattiva) il dies a quo della prescrizione da una circostanza di fatto, l'annotazione, che esula dalla sfera conoscitiva (e di conoscibilita') del cliente. Questi, infatti, e' reso edotto delle movimentazioni del proprio conto, solo con la ricezione dell'estratto conto, quale primo atto con cui si attua il valore della conoscibilita' delle competenze annotate in proprio favore dalla Banca. Allo stesso modo censurabile e' anche la parte in cui si afferma che: «in ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi gia' versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge». Tale previsione e' stata letta, nell'immediatezza dell'approvazione della norma, come una clausola di salvaguardia della posizione giuridica dei clienti che abbiano gia' ricevuto il rimborso, cui la prescrizione non potrebbe piu' essere eccepita. Nondimeno, la norma de qua, nella sua genericita' e approssimazione, si presta anche ad un'ulteriore lettura, ulteriore e non esclusiva della prima, resa possibile dalla formulazione testuale della stessa. Parrebbe potersi desumere che, se il cliente ha gia' effettuato i versamenti indebiti, pretesi dalla banca, non ne possa richiedere la restituzione. Orbene, tale opzione interpretativa (probabilmente, escludibile sulla base di un'esegesi costituzionalmente orientata della norma) contrasta col principio di ,giustiziabilita' delle posizioni giuridiche soggettive. Tale profilo di illegittimita' e' aggravato dalla portata retroattiva che il legislatore ha voluto riconoscere alla norma de qua, in virtu' della prima parte della stessa. Cosi' facendo, si e' introdotto, in via legislativa, il divieto di ripetizione in via stragiudiziale e giudiziale delle somme, indebitamente corrisposte dai clienti del sistema bancario. Cio', senza che tale scelta possa definirsi quale esito del contemperamento del diritto di azione, che e' consacrato costituzionalmente, con altri valori di rango eguale o superiore. Per scelta del legislatore (e tale considerazione investe sia la prima che la seconda a parte della norma), pertanto, una condotta illecita come l'addebito al correntista di competenze e interessi contra legem, in virtu' di disposizioni penali (interessi usurai) o di natura civilistica (inderogabili perche' espressione di principi di ordine pubblico economico - interessi contra legem, interessi anatocistici-), diviene di fatto non sanzionabile. Infatti, il correntista e' privato, a causa dell'intervento legislativo de quo, della condictio indebiti. Se, di per se', la previsione di un limite alla tutela giurisdizionale, sub specie della sua radicale esclusione, appare in contrasto coi principi costituzionali, a fortiori, tale censura si aggrava a fronte dell'espressa previsione della retroattivita' della suddetta preclusione del ricorso al rimedio giurisdizionale. D'altronde, la giurisprudenza costituzionale e' ricca di precedenti da cui e' possibile trarre il principio dell' indefettibilita' della tutela giurisdizionale, quale caposaldo dello Stato di Diritto. Ad esempio, in materia di obbligatorieta' dell'istituto arbitrale, e' stato costantemente ribadito che l'accesso all'actio giudiziaria puo' essere condizionato, mediante l'imposizione del previo ricorso a modalita' stragiudiziali di composizione della controversia (es. tentativo di conciliazione e, oggi, di mediazione), ma non anche escluso, con l'imposizione di modalita' alternative di risoluzione delle controversie. In particolare, la Corte costituzionale fin dalla sentenza n. 127 del 1977 ha osservato che, poiche' la Costituzione garantisce ad ogni soggetto il diritto di agire ingiudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, «il fondamentale di qualsiasi arbitrato e' da rinvenirsi nella libera scelta delle parti: perche' solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all'art. 24, comma primo, Cost.) puo' derogare al precetto contenuto nell'art. 102, comma primo, Cost. sicche' la fonte" dell'arbitrato non puo' piu' ricercarsi e porsi in una legge ordinaria o, piu' generalmente, in una volonta' autoritativa». Tale principio e' stato costantemente ribadito con le sentenze n. 325 del 1998, n. 381 del 1997, n. 54 del 1996, numeri 232, 206 e 49 del 1994, n. 488 del 1991, e precisato nel senso che anche qualora sia richiesto «l'accordo delle parti per derogare alla competenza arbitrale, si rimette pur sempre alla volonta' della sola parte che non voglia tale accordo derogatorio, l'effetto di rendere l'arbitrato concretamente obbligatorio per l'altro soggetto che non l'aveva voluto», essendo «sufficiente la mancata intesa sulla deroga della competenza arbitrale per vanificare l'apparente facoltativita' bilaterale dell'opzione» (sentenza n. 152 Cost del 1996). 3. Violazione del principio di uguaglianza e ragionevolezza ex art. 3 cost. 3.1. Introduzione di un'inammissibile disparita' di trattamento tra banche e utenti del sistema bancario La norma viola anche il principio di ragionevolezza e uguaglianza (art. 3 Cost) perche', con una previsione ad hoc, introduce una disciplina che, menomando i poteri di reazione processuale dei clienti del sistema bancario, assicura un ingiustificato privilegio per le banche, introducendo un'inammissibile disparita' di trattamento tra due categorie di soggetti. Cio', senza che tale diversificazione dei poteri sostanziali e processuali trovi giustificazione, neppure, nell'esigenza di colmare un eventuale e preesistente divario tra le parti, che veda le banche in una posizione di minorata difesa, riallineando le loro posizioni. D'altronde, a voler individuare un contraente debole nella relazione creditizia, questo non potrebbe essere individuato se non nell'utente del sistema bancario. Cio' in considerazione dell'abituale soggezione del destinatario del credito nei confronti dell'ente erogante, dal quale dipende, spesso, la sopravvivenza economica personale o della propria famiglia. Proprio, la constatazione di tale soggezione, di tale naturale disparita' economica delle parti del rapporto cliente - banca avrebbe reso ragionevole anche in tale sedes materiae - come, peraltro, verificatosi in occasione di altri interventi normativi in materia (Legge sulla trasparenza bancaria n. 154 del 1992, T.U.B. in materia bancaria, n. 385/1993) - una regola iuris, di favore per l'utente del sistema bancario, e non per tal ultimo. Infatti, risponde ad una regola di esperienza di difficile smentita che il cliente, traendo dal credito bancario le risorse essenziali per il soddisfacimento delle proprie esigenze economiche quotidiane, non richiedera' la restituzione di quanto indebitamente versato, se non al momento della definitiva chiusura del rapporto. Cio', nella consapevolezza che un qualunque contenzioso con la propria banca portera', con ogni probabilita', all'interruzione o alla sospensione nell'erogazione del credito. Ne consegue che una legge, che avesse perseguito l'attuazione del principio di uguaglianza, sub specie dell'eliminazione degli ostacoli all'esercizio dei diritti dell'utente del sistema bancario, avrebbe dovuto far decorrere, il dies a quo, sempre e comunque, dalla chiusura del conto, a prescindere, cioe', dalla natura ripristinatoria o solutoria del versamento. 3.2. Introduzione di un'inammissibile disparita' di trattamento tra tipologie contrattuali assimilabili sotto il profilo funzionale. La norma censurata viola il principio di uguaglianza anche sotto un diverso aspetto, introducendo un dies di decorrenza della prescrizione diverso non solo dall'unico coerente con la causa e la funzione sociale dei contratti bancari regolati in conto corrente (ed, in particolare, del contratto di apertura di credito), ma anche dallo statuto normativo dei singoli tipi contrattuali, che recano profili di affinita' con il rapporto de quo. Occorre premettere che, in materia, prevale l'opinione secondo cui, accanto alle operazioni bancarie in conto corrente, di volta in volta poste in essere tra banca e cliente, sarebbe configurabile un vero e proprio contratto di conto corrente bancario. L'espressione codicistica «conto corrente» indicherebbe, cioe', non solo una peculiare forma di contabilizzazione dei rapporti derivanti da un'operazione bancaria (deposito o conto corrente), ma anche una figura negoziale ad hoc ovvero il c. d. conto corrente di corrispondenza. Controversa e' la causa del negozio, per quanto prevalga l'opinione per cui verrebbe in rilievo un negozio complesso atipico, avente essenzialmente funzione di mandato, il cui oggetto sarebbe l'espletamento, da parte della banca, di operazioni di pagamento e di riscossione o, piu', in generale di un servizio di cassa. Anche chi riconduce la fattispecie de qua alla diversa categoria del collegamento negoziale, risultante dalla combinazione di diversi e autonomi negozi, individua uno di questi proprio nel mandato (l'altro sarebbe, a secondo delle diverse tesi ricostruttive, il deposito o un negozio atipico volto alla costituzione della disponibilita' di fondi). Orbene, nell'ipotesi del mandato, al quale il contratto di apertura di credito e' abitualmente ricondotto, al fine di individuarne il profilo causale essenziale (anche se non esclusivo), la prescrizione inizia a decorrere dalla cessazione del rapporto, e cio' anche per quanto concerne i singoli atti giuridici posti in essere in esecuzione del mandato. Le stesse considerazioni possono essere fatte con riguardo al contratto di deposito cui l'apertura di credito e' ricondotta da alcuni sostenitori della teoria del c.d. collegamento negoziale. E', infatti, pacifico che la prescrizione del diritto ad ottenere la restituzione della cosa depositata inizia a decorrere dalla cessazione del contratto, ad esempio, per scadenza del termine previsto per la custodia, e non dalla data di deposito del bene. Dunque, si introduce un regime per le operazioni bancarie in conto corrente irragionevolmente differenziato rispetto a quello previsto per situazioni giuridicamente omogenee, senza che tale diversita' di trattamento sia assistita da alcuna logica, se non quella (verosimile) di favorire alcuni operatori commerciali (le banche) in danno degli utenti. 3.3. Introduzione di un'inammissibile disparita' di trattamento tra somme versate indebitamente, rispettivamente, prima e dopo l'entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge. Come gia' evidenziato la norma censurata prevede che «in ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi gia' versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge». Si e' detto della possibile lettura alternativa della norma, peraltro, coerente con la sua portata retroattiva, ovvero precludere al cliente l'azione di ripetizione («non si fa luogo alla restituzione») delle somme gia' indebitamente corrisposte alla banca. Orbene, la censurata paralisi dei poteri sostanziali e processuali di tutela degli utenti del sistema bancario e' destinata a operare per le sole somme gia' versate alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto - legge, con conseguente introduzione di una ingiustificata compressione del diritto di ripetere l'indebito per chi abbia posto in essere pagamenti fino alla suddetta soglia temporale, e non anche per chi non versi ancora nella predetta situazione giuridica. Anche in tale caso, si differenzia il regime riservato alla medesima situazioni giuridica (ovvero il pagamento di somme non dovute) sulla base di un mero dato temporale, senza che tale scelta trovi fondamento in un equilibrato contemperamento dei valori costituzionali in gioco. 4. Violazione del principio del giusto processo ex art. 111 Cost. La norma viola anche l'art. 111 Cost., che costituzionalizza il principio del giusto processo, sub specie della parita' delle «armi». Infatti, limitatamente ai processi gia' pendenti, la norma de qua, supportata da un'espressa previsione di retroattivita', viene a sancire - se' non altro nelle ipotesi in cui, dalle indebite annotazioni della banca, sia gia' decorso un decennio - la paralisi processuale di chi abbia agito in giudizio, esperendo un'azione di ripetizione d'indebito, realizzando cosi' un vulnus ben piu' pregnante di un mero (e, di per se', censurabile) sbilanciamento trai diritti contrapposti delle parti. 5. Violazione dell'art. 117, primo comma, cost., in relazione all'art. 6 della convezione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848. Tale norma internazionale, che sancisce il diritto ad un giusto processo dinanzi ad un tribunale indipendente ed imparziale, impone al legislatore di uno Stato contraente, nell'interpretazione della Corte Europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, di non interferire nell'amministrazione della giustizia allo scopo d'influire sulla singola causa o su di una determinata categoria di controversie, attraverso norme interpretative che assegnino alla disposizione interpretata un significato vantaggioso per una parte del procedimento, salvo il caso di «ragioni imperative d'interesse generale». Il legislatore nazionale ha emanato una norma interpretativa, in presenza di un notevole contenzioso e di un orientamento della Corte di cassazione, sfavorevole alle banche, cosi' violando il principio di «parita' delle armi», non essendo prefiguratili «ragioni imperative d'interesse generale» che permettano di escludere la violazione del divieto d'ingerenza. Pare opportuno precisare, in linea preliminare, quale sia, secondo la giurisprudenza delle Corte costituzionale, il rango e l'efficacia delle norme della CEDU ed il ruolo, rispettivamente, dei giudici nazionali e della Corte di Strasburgo, nell'interpretazione ed applicazione della Convenzione europea. Siffatta tematica e' stata oggetto di disamina da parte delle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, le quali hanno rilevato che l'art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare l'espressione "obblighi internazionali" in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle contemplate dagli arti. 10 e 11 Cost. Dunque, l'art. 117, primo comma, Cost., cosi' interpretato ex novo, ha consentito di rinvenire un fondamento costituzionale all'osservanza degli obblighi internazionali pattizi. Ne consegue che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, e' idoneo a dar luogo ad una violazione (mediata) dell'art. 117, primo comma, Cost. Infatti, la clausola del necessario rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, dettata dall'art. 117, primo comma, Cost., attraverso un meccanismo di rinvio mobile del diritto interno alle norme internazionali pattizie di volta in volta rilevanti, impone, infatti, il controllo di costituzionalita' della norma interna, qualora il giudice comune ritenga lo strumento dell'interpretazione insufficiente ad eliminare il contrasto. Infatti, il giudice nazionale - cui, nella veste di giudice comune della Convenzione, compete di applicare le relative norme, nell'interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo - nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione europea, deve, in primis, procedere ad una interpretazione della prima conforme a quella convenzionale. Ovviamente, la norma della CEDU non prevarra' nella sola ipotesi in cui la stessa, nell'interpretazione data dalla Corte Europea, si ponga in conflitto con altre norme della nostra Costituzione. Quando ricorra tale ipotesi, pure eccezionale, si deve escludere l'operativita' del rinvio alla norma internazionale e, dunque, la sua idoneita' ad integrare il parametro dell'art. 117, primo comma, Cost.; e, non potendosi evidentemente incidere sulla sua legittimita', comporta - allo stato - l'illegittimita', per quanto di ragione, della legge di adattamento (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007). Soltanto quando ritiene che non sia possibile comporre il contrasto in via interpretativa, il giudice comune - il quale non puo' procedere all'applicazione della norma della CEDU (allo stato, a differenza di quella comunitaria provvista di effetto diretto) in luogo di quella interna contrastante, tanto meno fare applicazione di una norma interna che egli stesso abbia ritenuto in contrasto con la CEDU, e pertanto con la Costituzione - deve sollevare la questione di costituzionalita' (anche sentenza n. 239 del 2009), con riferimento al parametro dell'art. 117, primo comma, Cost., ovvero anche dell'art. 10, primo comma, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta. Orbene, si ritiene che, in questo specifico caso, anche in virtu' del carattere univoco della disposizione censurata, non sia possibile un'interpretazione della stessa conforme a quella convenzionale internazionale (art. 6 Cedu). Cio' premesso, si ricorda la decisione relativa al caso Scanner de L'Ouest Lyonnais e altri c. Francia, del 21 giugno del 2007, in occasione della quale, la Corte europea ha ribadito che, mentre, in linea di principio, al legislatore non e' precluso intervenire in materia civile, con nuove disposizioni retroattive, su diritti sorti in base alle leggi vigenti, il principio dello Stato di diritto e la nozione di processo equo sancito clan' articolo 6 della CEDU vietano l'interferenza del legislatore nell'amministrazione della giustizia destinata a influenzare l'esito della controversia, fatta eccezione che per motivi imperativi di interesse generale («imperieux motifs d'interet general»). Infatti, il requisito della parita' delle armi comporta l'obbligo di dare alle parti una ragionevole possibilita' di perseguire le proprie azioni giudiziarie, senza essere poste in condizione di sostanziale svantaggio rispetto agli avversari. In virtu' del suddetto orientamento (che trova i suoi precedenti nei casi Raffineries Grecques Stran e Stratis Andreadis c. Grecia del 9 dicembre 1994, e Zielinski e altri c. Francia, del 28 ottobre 1999) deve considerarsi violativa dell'art. 6 Cedu, la prassi di interventi legislativi sopravvenuti, che modifichino retroattivamente, in senso sfavorevole per gli interessati, le disposizioni di legge attributive di diritti, la cui lesione abbia dato luogo ad azioni giudiziarie ancora pendenti all'epoca della modifica. Questa prassi puo' essere suscettibile di comportare una violazione dell'art. 6 della CEDU, risolvendosi in un'indebita ingerenza del potere legislativo sull'amministrazione della giustizia. In particolare, nel caso Zielinski e altri c. Francia, si e' riaffermato il principio che nega ogni indebita interferenza del legislatore, fatta salva la sussistenza di «motivi imperativi di interesse generale». La Corte europea, tuttavia, ha precisato che siffatti motivi non ricorrevano nella specie, in quanto il mero rischio finanziario, denunciato dal Governo ed espressamente indicato dalla Corte costituzionale, non consentiva di per se' che il legislatore si sostituisse alle parti sociali del contratto collettivo, oggetto del contenzioso. Per contro, la legittimita' di simili interventi e' stata riconosciuta, solo quando ricorrevano ipotesi eccezionali ed, in primo luogo, ragioni "storiche epocali", come nel caso della riunificazione tedesca (caso Forrer-Niederthal c. Germania, sentenza del 20 febbraio 2003). In questo caso, la Corte europea, di fronte ad una norma che faceva salvi con effetto retroattivo i trasferimenti di proprieta', senza indennizzo, in «proprieta' del popolo» della ex D.D.R., ha concluso per la compatibilita' dell'intervento con la norma convenzionale; cio' non soltanto per il motivo "epocale" del nuovo riassetto dei conflitti patrimoniali conseguenti alla riunificazione, ma anche in considerazione della sussistenza effettiva di un sistema che aveva garantito alle parti, che contestavano le modalita' del riassetto, l'accesso a, e lo svolgimento di, un processo equo e garantito. Al riguardo, la Corte europea ha riconosciuto che il ricorrente aveva avuto accesso a tribunali indipendenti avvicendatisi nei vari gradi, e soprattutto all'organo di giustizia costituzionale, sicche' ha osservato che «nel suo complesso», il procedimento in questione aveva rivestito i caratteri di equita', conformi al dettato dell' art. 6, paragrafo 1, della CEDU. In altri casi, nello specificare la sussistenza o meno dei motivi imperativi d'interesse generale, la Corte di Strasburgo ha ritenuto legittimo l'intervento del legislatore che,per porre rimedio ad una imperfezione tecnica della legge interpretata, aveva inteso con la legge retroattiva, ristabilire un'interpretazione piu' aderente all'originaria volonta' del legislatore. Si tratta, in primo luogo, della sentenza 23 ottobre 1997, nel caso National & Provincia! Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society e. Regno Unito (utilizzata mutatis mutandis anche nella citata pronuncia Forrer-Niederthal c. Germania), nella quale e' stato ritenuto che l'adozione di una disposizione interpretativa puo' essere considerata giustificata allorche' lo Stato, nella logica di interesse generale di garantire il pagamento delle imposte, abbia inteso porre rimedio al rischio che l'intenzione originaria del legislatore fosse, in quel caso, sovvertita da disposizioni fissate in circolari. Nello stesso solco si pone la sentenza del 27 maggio 2004, Ogis-institut Stanislas, Ogec Si Pie X e Bianche De Castille e altri c. Francia, in cui le circostanze del caso di specie non erano identiche a quelle del caso Zielinski del 1999. La pronuncia ha affermato che l'intervento del legislatore non aveva inteso sostenere la posizione assunta dall'amministrazione dinanzi ai giudici, ma porre rimedio ad un errore tecnico di diritto, al fine di garantire la conformita' all'intenzione originaria del legislatore, nel rispetto di un principio di perequazione. Il caso viene, quindi, assimilato a quello National & Provincial Building Society del 1997, dove l'intervento del legislatore era giustificato dall'obiettivo finale di «riaffermare l'intento originale del Parlamento». La Corte ha ritenuto che la finalita' dell'intervento legislativo fosse quindi quella di garantire la conformita' all'intenzione originaria del legislatore a sostegno di un principio di perequazione, aggiungendo che gli attori non avrebbero potuto validamente invocare un "diritto" tecnicamente errato o carente, e dolersi quindi dell'intervento del legislatore teso a chiarire i requisiti ed i limiti che la legge interpretata contemplava. In considerazione dei suddetti principi, nonche' della ricostruzione della portata e degli obiettivi della norma qui censurata, e' evidente il contrasto della stessa con l'art. 6 della Cedu. Infatti, non ricorrono , nel caso di specie, «motivi imperativi di interesse generale», quali enucleati dalla giurisprudenza della CEDU, sub specie di eventi di carattere storico-epocale; ne' e' ragionevolmente sostenibile che, con la disposizione de qua, si sia voluta assicurare l'originaria volonta' del legislatore che, come gia' evidenziato, ha omesso di disciplinare espressamente la prescrizione di diritti, connessi ai rapporti bancari, indirettamente rinviando ad una norma di carattere generale, ai principi regolativi della materia delle obbligazioni, nonche' alla funzione e struttura delle singole operazioni bancarie. 5. Violazione delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario ex articolo 101, 102, 104 cost. La Corte costituzionale ha ripetutamente affermato il principio secondo cui il legislatore vulnera le funzioni giurisdizionali quando la legge sia intenzionalmente diretta ad incidere su concrete fattispecie sub judice" (cfr. Corte Cost. nn. 397/94, 6/94, 429/93, 424/93, 283/93, 39/93, 440/92, 429/91 ed altre). Si tratta, allora, di stabilire se la statuizione contenuta nella norma censurata integri effettivamente i requisiti del precetto di fonte legislativa, come tale dotato dei caratteri della generalita' ed astrattezza, ovvero sia diretto ad incidere su concrete fattispecie "sub judice" e, come piu' volte ribadito, a vantaggio di una delle due parti del giudizio.