IL TRIBUNALE 
 
    Ha emesso la seguente ordinanza nella causa  civile  iscritta  al
numero del ruolo generale  n.  213/2005  e  promossa  da:  Convertino
Sante,  rappresentato  e  difeso  dagli  avv.ti  Angela  Matarrese  e
Maurizio Sansone, attore; 
    Contro Banca Antoniana popolare Veneta  S.p.A.,  rappresentata  e
difesa dall'avv. Alfredo Carrozzini, convenuta. 
 
                      Svolgimento del processo 
 
    Con atto di citazione  notificato  il  18  aprile  2005  il  sig.
Convertino Sante conveniva in giudizio la  Banca  Antoniana  Popolare
Veneta S.p.A. chiedendo che fosse rideterminato il  saldo  del  conto
corrente n. 2741/R, acceso in data 11 aprile  1994,  sino  alla  data
dell'ultima operazione avvenuta il 29 dicembre 1998; in  particolare,
chiedeva che i conteggi fossero riformulati tenendo conto  dell'ormai
consolidato  indirizzo  giurisprudenziale  circa  la  nullita'  della
capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi e della  c.m.s.,
affinche' la banca fosse condannata alla  restituzione  dell'indebito
versato. 
    Costituitasi  in  giudizio,  la  banca  convenuta  contestava  le
eccezioni  e  le  richieste  attoree,  concludendo  per  il   rigetto
integrale della domanda ed opponendo,  preliminarmente,  la  liceita'
della  capitalizzazione  trimestrale  degli  interessi   e,   quindi,
l'eccezione di prescrizione estintiva. 
    Nel corso del giudizio,  precisate  le  domande  ed  avanzate  le
richieste istruttorie nei termini concessi ai sensi degli arti. 183 e
184 c.p.c.  (ante  novella),  questo  G.U.,  sciogliendo  la  riserva
assunta all'udienza del 20 luglio 2007, riteneva doversi procedere al
ricalcolo del saldo. 
    Veniva depositato  elaborato  peritale  contenente  il  ricalcolo
effettuato  dal  consulente,  alla  stregua  dei   criteri   di   cui
all'ordinanza ammissiva della ctu. 
    Ritenuta  la  causa  matura  per  la   decisione,   si   rinviava
all'udienza del 10 marzo  2011  per  la  discussione  orale  ex  art.
281-sexies c.p.c., concedendo termine alle parti  fino  a  10  giorni
prima dell'udienza per il deposito delle presenti note conclusive. 
 
                             Motivazione 
 
    Questo Giudice ritiene sussistenti i  presupposti  per  sollevare
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 61, della
Legge n. 10 del 2011, di conversione del decreto Milleproroghe  (D.L.
29 dicembre 2010 n. 225). 
    Il testo  cosi'  recita:  «In  ordine  alle  operazioni  bancarie
regolate  in  conto  corrente  l'art.  2935  del  codice  civile   si
interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti
dall'annotazione   in   conto   inizia   a   decorrere   dal   giorno
dell'annotazione  stessa.  In  ogni  caso  non  si  fa   luogo   alla
restituzione di importi gia' versati alla data di entrata  in  vigore
della legge di conversione del presente decreto-legge». 
a) La rilevanza della questione nel caso di specie 
    In primis, sotto il profilo della rilevanza della norma  de  qua,
ai fini del  thema  decidendum,  non  vi  e'  dubbio  che  la  natura
assertivamente interpretativa della stessa, unitamente  all'eccezione
di  prescrizione,  sollevata  da  parte   convenuta,   ne   impongano
l'applicazione nel caso concreto. 
    Pertanto questo Giudice, dovendosi pronunciare su tale eccezione,
non puo' prescindere dall'esame della norma stessa. 
b) Non manifesta infondatezza della questione 
    L'art. 2-quinquies, comma 9, della legge n. 10 del 2011,  secondo
il  Giudice  remittente,  e'  affetto  da   molteplici   profili   di
incostituzionalita'. 
    Invero, da  un  lato,  difettano  le  condizioni  necessarie  per
l'esercizio del potere di legislazione, con  funzione  interpretativa
e, quindi, con efficacia ex tunc; dall'altro, la norma  impugnata  e'
idonea a compromettere i  principi  cardine  del  nostro  sistema  di
diritto. 
    In   particolar   modo   risultano   violati   i   principi    di
ragionevolezza, di effettivita' del diritto dei cittadini di agire in
giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi (art.
24,   primo   comma,   Cost.);   d'integrita'   delle    attribuzioni
costituzionali  dell'autorita'  giudiziaria  (art.  102  Cost.),  ed,
ancora, il principio del  giusto  processo,  cosi'  come  l'art.  117
Cost., in materia  di  rispetto  degli  obblighi  assunti  sul  piano
internazionale, con la sottoscrizione della CEDU. 
    Cio' premesso, al vaglio della Corte costituzionale vanno rimessi
i seguenti motivi di incostituzionalita' della legge de qua: 
    1. -   Violazione   dei   limiti,   individuati    dalla    Corte
costituzionale, all'ammissibilita' di una legge d'interpretazione. 
    Deve premettersi una breve ricostruzione dei limiti,  esplicitati
dalla Corte costituzionale,  all'esercizio  del  potere  legislativo,
allorquando  la  norma  assuma  natura  interpretativa   e,   quindi,
efficacia retroattiva. 
    Come noto, il legislatore puo' adottare norme di  interpretazione
autentica non soltanto in presenza di incertezze sull'applicazione di
una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma  anche  «quando
la scelta imposta dalla legge rientri tra le  possibili  varianti  di
senso del  testo  originario,  con  cio'  vincolando  un  significato
ascrivibile alla norma anteriore» (sentenza n. 525 del 2000; in senso
conforme, ex plurimis, sentenze n. 374 del 2002, n. 26 del  2003,  n.
274 del 2006, n. 234 del 2007, n. 170 del 2008, n. 24 del 2009). 
    Orbene, tale condizione non appare rispettata nel caso di specie. 
    1.1. Inesistenza di una norma (specifica) da interpretare,  quale
condizione  dell'esercizio  del  potere  di   legislazione   a   fini
interpretativi (e conseguente irragionevolezza della norma de qua). 
    L'art. 2935 c.c. prevede una regola di carattere generale, ovvero
quella secondo cui il dies a quo, ai fini della  prescrizione  di  un
diritto, decorre dal momento in cui il suo titolare  e'  posto  nelle
condizioni di poterlo esercitare. 
    Come noto, ai fini dell'applicazione della suddetta norma  rileva
la sola possibilita' giuridica di esercitare un diritto - secondo  le
regole previste, per le varie ipotesi tipiche, dall'ordinamento  -  e
non anche una possibilita' di mero fatto. 
    La previsione de qua, che e' inidonea a  esaurire  la  disciplina
dei singoli diritti soggettivi e della  loro  (eventuale)  estinzione
per prescrizione, necessita dell'etero-integrazione della  disciplina
speciale prevista per i singoli tipi  contrattuali,  cosi'  come  dei
principi generali in materia di adempimento delle obbligazioni  e  di
ripetizione d'indebito. 
    Nel caso di specie, le norme - etero integratrici  devono  essere
individuate nella disciplina: 
        a) delle operazioni bancarie. Tali  devono  considerarsi,  in
virtu'  dell'univoco  disposto  dell'art.  1852  c.c.  l'apertura  di
credito, il deposito  bancario,  definiti  implicitamente  come  tali
dall'art. 1852 c.c. cosi' come  ogni  altra  relazione  tra  banca  e
cliente che sia ascrivibile agli schemi delineati dal Codice Civile o
affermatisi in sede interpretativa. 
        b) del conto corrente bancario. 
    In primis, non vi  e'  dubbio  che  una  legge  d'interpretazione
autentica avrebbe dovuto (e potuto) avere ad oggetto solo e  soltanto
una norma che disciplinasse di per  se',  in  maniera  specifica,  la
decorrenza della prescrizione con riguardo al contratto  di  apertura
di credito, regolato in  conto  corrente,  selezionandone  una  delle
possibili opzioni esegetiche. 
    Per contro, tale norma non esisteva, provvedendo gli interpreti a
colmare la lacuna, derivante dall'assenza di una norma speciale,  con
l'applicazione di una norma generale, dei principi  desumibili  dalla
disciplina   specifica   delle   singole   fattispecie   contrattuali
qualificabili  come  «operazioni  bancarie»,  cosi'  come  dei   piu'
generali principi in materia di estinzione del rapporto  obbligatorio
e di condictio indebiti 
    Dunque, il principio generale (desumibile  dall'art.  2935  c.c.)
veniva adattato allo schema e alla  funzione  del  singolo  contratto
bancario (ed, in primis, dell'apertura di credito),  avendo  cura  di
preservare la coerenza  sistematica  della  soluzione  interpretativa
prescelta. 
    1.2.  -  Non  includibilita'   della   soluzione   interpretativa
prospettata  tra  quelle  legittimamente  traibili  dalla  disciplina
complessiva dell'istituto (e conseguente irragionevolezza della norma
de qua). 
    Per quanto il contratto di apertura di  credito,  cosi'  come  il
contratto di deposito, ecc., siano connotati dall'esecuzione ripetuta
di  piu'  prestazioni,  conservano  il   loro   carattere   unitario,
rappresentando la serie di  versamenti,  prelievi  ed  accreditamenti
mere variazioni quantitative dell'unico originario rapporto.  Invero,
l'unitarieta' del rapporto giuridico derivante dal contratto di conto
corrente  bancario  -  come,  condivisibilmente,  evidenziato   dalle
Sezioni Unite del 2 dicembre 2010 - non e'  circostanza  di  per  se'
sufficiente, al fine d'individuare, nella chiusura del conto, il dies
a quo da cui far decorrere il  dies  a  quo  della  prescrizione  del
diritto alla ripetizione d'indebito  che  spetti,  eventualmente,  al
correntista nei confronti della banca. 
    Esistono, infatti, ipotesi tipiche nelle quali, pur  in  presenza
di un rapporto di durata connotato da prestazioni in denaro  ripetute
e scaglionate nel tempo (es. corresponsione dei canoni di locazione o
d'affitto, oppure del  prezzo  nella  somministrazione  periodica  di
cose), il singolo pagamento puo' qualificarsi come indebito  sin  dal
momento  in  cui  il  pagamento  medesimo  abbia  avuto  luogo;   con
conseguente  immediato  sorgere  del   diritto   del   solvens   alla
ripetizione. 
    Nondimeno, esistono ragioni, non solo sistematiche ma  desumibili
dall'intima struttura e funzione dei contratti bancari, che depongono
per la decorrenza del dies a quo  dalla  chiusura  del  contratto  di
conto corrente. 
    Innanzitutto, -  come  sottolineato  dalla  Suprema  Corte  nella
pronuncia  richiamata  -  l'insorgere  dell'azione   di   ripetizione
d'indebito   presuppone   logicamente,   quale   suo    indefettibile
presupposto, che sia stato effettuato  un  pagamento  d'indebito.  E,
solo da tale momento temporale, essa e' soggetta a prescrizione,  non
potendosi prescrivere cio' che ancora non sia sorto. 
    Da cio', la necessita' di individuare, alla stregua dei  principi
generali, nonche' della disciplina di settore, quando  il  versamento
del correntista costituisca un pagamento e  lo  stesso  possa  essere
definito indebito. 
    Per quanto riguarda,  in  special  modo,  l'apertura  di  credito
(quale tipologia contrattuale di peculiare diffusione), essa, come si
evince dal combinato disposto degli artt. 1842 e 1843 c.c., si  attua
mediante la messa a disposizione, da parte della banca, di una  somma
di denaro.  Il  cliente,  per  l'intera  durata  del  rapporto,  puo'
utilizzare tale somma anche in piu' riprese, ripristinandone in tutto
o in parte, la disponibilita',  eseguendo  versamenti  e  conseguenti
ulteriori prelevamenti,  entro  il  limite  complessivo  del  credito
accordatogli. 
    E' ovvio che,  se,  in  pendenza  dell'apertura  di  credito,  il
correntista non abbia operato alcun versamento, non e'  configurabile
alcun pagamento da parte sua, se non quando, chiuso il rapporto, egli
provveda a restituire alla banca il denaro in concreto utilizzato. In
tal   caso,   qualora   la   restituzione   abbia   ecceduto   quanto
giuridicamente dovuto a causa dell'addebito di somme non dovute (come
interessi anatocistici o  superiori  al  tasso  legale),  l'eventuale
azione di ripetizione d'indebito non potra' che essere esercitata  in
un momento successivo alla chiusura del conto. Pertanto, solo da quel
momento potra' decorrere il relativo termine di prescrizione. 
    Qualora, invece, nel corso  dello  svolgimento  del  rapporto  il
correntista  abbia  effettuato  non  solo   prelevamenti   ma   anche
versamenti, questi ultimi potranno essere considerati come pagamenti,
idonei  a  fondare  il  diritto  alla  ripetizione   (ove   risultino
indebiti), in quanto abbiano  avuto  lo  scopo  e  l'effetto  di  uno
spostamento patrimoniale in favore della banca.  Cio'  accadra'  solo
quando si tratti di versamenti eseguiti su ut», conto in passivo, cui
non accede alcuna apertura  di  credito  a  favore  del  correntista,
oppure siano stati superati i limiti dell'accreditamento. 
    Per contro, quando  il  passivo  non  abbia  superato  il  limite
dell'affidamento concesso al cliente, i versamenti da questi posti in
essere, fungeranno unicamente da atti ripristinatori della  provvista
di cui il correntista puo' ancora continuare a godere (cfr. in primis
Cass. Sez. Unite del 2 dicembre 2010, Cass. 18 ottobre 1982, n. 5413;
Cass. novembre 2007, n. 23107; Cass. 23 novembre 2005, n. 24588). 
    In tale ipotesi, il versamento  non  ha  funzione  solutoria  del
mutuo, bensi' di  mera  riespansione  della  misura  dell'affidamento
utilizzabile nuovamente in futuro dal correntista. 
    Non e', dunque, un pagamento, perche' non soddisfa  il  creditore
ma amplia (o ripristina) la facolta' d'indebitamento del correntista;
e la circostanza che, in quel momento, il saldo passivo del conto sia
influenzato  da  interessi  illegittimamente  fin  li'  computati  si
traduce in  un'indebita  limitazione  di  tale  facolta'  di  maggior
indebitamento, ma non nel pagamento anticipato di interessi.  In  tal
caso, la fattispecie dell'adempimento, sub specie di pagamento, sara'
configurabile soltanto dopo che, conclusosi il rapporto  di  apertura
di credito in conto corrente, la banca abbia preteso e  ottenuto  dal
correntista la restituzione del saldo finale, nel computo  del  quale
risultino compresi somme e competenze non dovute. 
    Pertanto, in armonia  con  i  principi  generali  in  materia  di
adempimento e di ripetizione d'indebito, e con quelli  relativi  alla
causa del contratto de quo, la  decorrenza  della  prescrizione  deve
essere individuata: a)  nel  versamento  (nell'ipotesi  di  conto  in
passivo, senza affidamento, cosi'  come  di  superamento  del  limite
affidato);  b)  nella  chiusura  del  rapporto  (quando   non   siano
effettuati  versamenti,  in  pendenza  di  rapporto,  o   quando   il
versamento,  effettuato  in  pendenza  di  rapporto,  abbia  funzione
meramente ripristinatoria dell'affidamento). 
    Percio', all'atto di emanazione del Decreto Milleproroghe e della
sua conversione in  legge,  tra  le  possibili  opzioni  ermeneutiche
dell'art. 2935 c.c. e della disciplina della materia, non vi era, ne'
avrebbe potuto esserci anche quella fatta propria dalla  disposizione
censurata. 
    D'altronde,  l'esclusione  dell'interpretazione   censurata   dal
novero  di  quelle   ammissibili,   deriva   anche   dalle   seguenti
considerazioni. 
    Il legislatore ha deciso di far decorrere il dies a  quo  da  una
circostanza di fatto (l'annotazione in conto) che esula  dalla  sfera
conoscitiva del cliente, il quale e' reso edotto delle movimentazioni
del proprio conto, solo con la ricezione dell'estratto  conto  (primo
atto con cui si attua il valore della conoscibilita' delle competenze
annotate in proprio favore dalla Banca). 
    Pertanto,  chi  non  ha  avuto  conoscenza  (ne'  avrebbe  potuto
conoscere) dell'esistenza di addebiti  in  proprio  sfavore,  perche'
semplicemente annotati in conto e non anche comunicati, non e'  nelle
condizioni giuridiche di esercitare qualunque pretesa restitutoria  o
di altra natura. 
    2. Violazione del princio di azione ex art. 24 cost. 
    E' evidente il contrasto con il principio di azione  ex  art.  24
Cost. nella parte in cui si prescrive che: «In ordine alle operazioni
bancarie regolate in conto corrente l'art. 2935 del codice civile  si
interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti
dall'annotazione   in   conto   inizia   a   decorrere   dal   giorno
dell'annotazione stessa». 
    Il legislatore fa decorrere (peraltro, con efficacia retroattiva)
il dies a  quo  della  prescrizione  da  una  circostanza  di  fatto,
l'annotazione,   che   esula   dalla   sfera   conoscitiva   (e    di
conoscibilita') del cliente. Questi, infatti, e'  reso  edotto  delle
movimentazioni del proprio conto, solo con la ricezione dell'estratto
conto,  quale  primo  atto  con  cui  si  attua   il   valore   della
conoscibilita' delle competenze  annotate  in  proprio  favore  dalla
Banca. 
    Allo stesso modo censurabile e' anche la parte in cui si  afferma
che: «in ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi  gia'
versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente   decreto-legge».   Tale   previsione   e'   stata    letta,
nell'immediatezza dell'approvazione della norma, come una clausola di
salvaguardia della posizione giuridica dei clienti che  abbiano  gia'
ricevuto il rimborso, cui la prescrizione non  potrebbe  piu'  essere
eccepita. 
    Nondimeno,  la  norma   de   qua,   nella   sua   genericita'   e
approssimazione, si presta anche ad un'ulteriore lettura, ulteriore e
non esclusiva della prima, resa possibile dalla formulazione testuale
della stessa. 
    Parrebbe potersi desumere che, se il cliente ha gia' effettuato i
versamenti indebiti, pretesi dalla banca, non ne possa richiedere  la
restituzione. Orbene,  tale  opzione  interpretativa  (probabilmente,
escludibile sulla base  di  un'esegesi  costituzionalmente  orientata
della norma)  contrasta  col  principio  di  ,giustiziabilita'  delle
posizioni giuridiche soggettive. Tale profilo  di  illegittimita'  e'
aggravato dalla portata retroattiva  che  il  legislatore  ha  voluto
riconoscere alla norma de qua, in  virtu'  della  prima  parte  della
stessa. 
    Cosi' facendo, si e' introdotto, in via legislativa,  il  divieto
di ripetizione  in  via  stragiudiziale  e  giudiziale  delle  somme,
indebitamente corrisposte dai clienti  del  sistema  bancario.  Cio',
senza che tale scelta possa definirsi quale esito del contemperamento
del diritto di azione,  che  e'  consacrato  costituzionalmente,  con
altri valori di rango eguale o superiore. 
    Per scelta del legislatore (e tale considerazione investe sia  la
prima che la seconda a parte della  norma),  pertanto,  una  condotta
illecita come l'addebito al correntista  di  competenze  e  interessi
contra legem, in virtu' di disposizioni penali (interessi  usurai)  o
di natura civilistica (inderogabili perche' espressione  di  principi
di ordine pubblico economico  -  interessi  contra  legem,  interessi
anatocistici-),  diviene  di  fatto  non  sanzionabile.  Infatti,  il
correntista e' privato, a causa dell'intervento legislativo  de  quo,
della condictio indebiti. 
    Se,  di  per  se',  la  previsione  di  un  limite  alla   tutela
giurisdizionale, sub specie della sua radicale esclusione, appare  in
contrasto coi principi costituzionali, a fortiori,  tale  censura  si
aggrava a fronte dell'espressa previsione della retroattivita'  della
suddetta preclusione del ricorso al rimedio giurisdizionale. 
    D'altronde,  la  giurisprudenza  costituzionale   e'   ricca   di
precedenti  da  cui  e'   possibile   trarre   il   principio   dell'
indefettibilita' della tutela giurisdizionale, quale caposaldo  dello
Stato  di  Diritto.  Ad  esempio,  in  materia   di   obbligatorieta'
dell'istituto  arbitrale,  e'  stato   costantemente   ribadito   che
l'accesso all'actio giudiziaria puo'  essere  condizionato,  mediante
l'imposizione  del  previo  ricorso  a  modalita'  stragiudiziali  di
composizione della controversia (es. tentativo  di  conciliazione  e,
oggi, di mediazione), ma non  anche  escluso,  con  l'imposizione  di
modalita' alternative di risoluzione delle controversie. 
    In particolare, la Corte costituzionale fin dalla sentenza n. 127
del 1977 ha osservato che, poiche' la Costituzione garantisce ad ogni
soggetto il diritto di agire ingiudizio  per  la  tutela  dei  propri
diritti  ed  interessi  legittimi,  «il  fondamentale  di   qualsiasi
arbitrato e' da rinvenirsi nella libera scelta delle  parti:  perche'
solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei  possibili  modi  di
disporre, anche in senso negativo, del diritto di  cui  all'art.  24,
comma primo, Cost.) puo' derogare  al  precetto  contenuto  nell'art.
102, comma primo, Cost. sicche' la  fonte"  dell'arbitrato  non  puo'
piu' ricercarsi e porsi in una legge ordinaria o, piu'  generalmente,
in una volonta' autoritativa». 
    Tale principio e' stato costantemente ribadito con le sentenze n.
325 del 1998, n. 381 del 1997, n. 54 del 1996, numeri 232, 206  e  49
del 1994, n. 488 del 1991, e precisato nel senso  che  anche  qualora
sia richiesto «l'accordo delle parti  per  derogare  alla  competenza
arbitrale, si rimette pur sempre alla volonta' della sola  parte  che
non voglia tale accordo derogatorio, l'effetto di rendere l'arbitrato
concretamente obbligatorio  per  l'altro  soggetto  che  non  l'aveva
voluto», essendo «sufficiente la mancata intesa  sulla  deroga  della
competenza  arbitrale  per  vanificare   l'apparente   facoltativita'
bilaterale dell'opzione» (sentenza n. 152 Cost del 1996). 
    3.    Violazione del principio di uguaglianza e ragionevolezza ex
art. 3 cost. 
    3.1. Introduzione di un'inammissibile disparita'  di  trattamento
tra banche e utenti del sistema bancario 
    La norma viola anche il principio di ragionevolezza e uguaglianza
(art. 3 Cost) perche', con  una  previsione  ad  hoc,  introduce  una
disciplina che,  menomando  i  poteri  di  reazione  processuale  dei
clienti del sistema bancario, assicura un  ingiustificato  privilegio
per  le   banche,   introducendo   un'inammissibile   disparita'   di
trattamento tra due categorie di soggetti. 
    Cio', senza che tale diversificazione dei  poteri  sostanziali  e
processuali trovi giustificazione, neppure, nell'esigenza di  colmare
un eventuale e preesistente divario tra le parti, che veda le  banche
in una posizione di minorata difesa, riallineando le loro posizioni. 
    D'altronde,  a  voler  individuare  un  contraente  debole  nella
relazione creditizia, questo non potrebbe essere individuato  se  non
nell'utente   del   sistema   bancario.   Cio'   in    considerazione
dell'abituale soggezione del destinatario del credito  nei  confronti
dell'ente erogante,  dal  quale  dipende,  spesso,  la  sopravvivenza
economica personale o della propria famiglia. 
    Proprio, la constatazione di tale soggezione,  di  tale  naturale
disparita' economica delle parti del rapporto cliente - banca avrebbe
reso ragionevole anche in  tale  sedes  materiae  -  come,  peraltro,
verificatosi in occasione di altri interventi  normativi  in  materia
(Legge sulla trasparenza bancaria n. 154 del 1992, T.U.B. in  materia
bancaria, n. 385/1993) - una regola iuris, di favore per l'utente del
sistema bancario, e non per tal ultimo. 
    Infatti, risponde  ad  una  regola  di  esperienza  di  difficile
smentita che il cliente, traendo  dal  credito  bancario  le  risorse
essenziali per il soddisfacimento delle proprie  esigenze  economiche
quotidiane, non richiedera' la restituzione di  quanto  indebitamente
versato, se non al momento della definitiva  chiusura  del  rapporto.
Cio', nella  consapevolezza  che  un  qualunque  contenzioso  con  la
propria banca portera', con  ogni  probabilita',  all'interruzione  o
alla sospensione nell'erogazione del credito. 
    Ne consegue che una legge, che avesse perseguito l'attuazione del
principio di uguaglianza, sub specie dell'eliminazione degli ostacoli
all'esercizio dei diritti dell'utente del sistema  bancario,  avrebbe
dovuto far decorrere,  il  dies  a  quo,  sempre  e  comunque,  dalla
chiusura   del   conto,   a   prescindere,   cioe',   dalla    natura
ripristinatoria o solutoria del versamento. 
    3.2. Introduzione di un'inammissibile disparita'  di  trattamento
tra tipologie contrattuali assimilabili sotto il profilo funzionale. 
    La norma censurata viola il principio di uguaglianza anche  sotto
un  diverso  aspetto,  introducendo  un  dies  di  decorrenza   della
prescrizione diverso non solo dall'unico coerente con la causa  e  la
funzione sociale dei contratti bancari  regolati  in  conto  corrente
(ed, in particolare, del contratto di apertura di credito), ma  anche
dallo statuto normativo dei singoli  tipi  contrattuali,  che  recano
profili di affinita' con il rapporto de quo. 
    Occorre premettere che, in materia,  prevale  l'opinione  secondo
cui, accanto alle operazioni bancarie in conto corrente, di volta  in
volta poste in essere tra banca e cliente, sarebbe  configurabile  un
vero e proprio contratto di conto corrente bancario. 
    L'espressione codicistica «conto corrente»  indicherebbe,  cioe',
non solo  una  peculiare  forma  di  contabilizzazione  dei  rapporti
derivanti da un'operazione bancaria (deposito o conto  corrente),  ma
anche una figura negoziale ad hoc ovvero il c. d. conto  corrente  di
corrispondenza. 
    Controversa  e'  la  causa  del  negozio,  per  quanto   prevalga
l'opinione per cui verrebbe in rilievo un negozio complesso  atipico,
avente essenzialmente funzione di mandato,  il  cui  oggetto  sarebbe
l'espletamento, da parte della banca, di operazioni di pagamento e di
riscossione o, piu', in generale di un servizio di cassa. 
    Anche chi riconduce la fattispecie de qua alla diversa  categoria
del collegamento negoziale, risultante dalla combinazione di  diversi
e autonomi negozi,  individua  uno  di  questi  proprio  nel  mandato
(l'altro sarebbe, a secondo  delle  diverse  tesi  ricostruttive,  il
deposito  o  un  negozio  atipico  volto  alla   costituzione   della
disponibilita' di fondi). 
    Orbene, nell'ipotesi  del  mandato,  al  quale  il  contratto  di
apertura  di  credito  e'  abitualmente  ricondotto,   al   fine   di
individuarne il profilo causale essenziale (anche se non  esclusivo),
la prescrizione inizia a decorrere dalla cessazione del  rapporto,  e
cio' anche per quanto concerne i  singoli  atti  giuridici  posti  in
essere in esecuzione del mandato. 
    Le stesse considerazioni possono essere  fatte  con  riguardo  al
contratto di deposito cui l'apertura  di  credito  e'  ricondotta  da
alcuni sostenitori della teoria del c.d. collegamento negoziale.  E',
infatti, pacifico che la prescrizione  del  diritto  ad  ottenere  la
restituzione  della  cosa  depositata  inizia   a   decorrere   dalla
cessazione del  contratto,  ad  esempio,  per  scadenza  del  termine
previsto per la custodia, e non dalla  data  di  deposito  del  bene.
Dunque, si introduce un regime per le operazioni  bancarie  in  conto
corrente irragionevolmente differenziato rispetto a  quello  previsto
per situazioni giuridicamente omogenee, senza che tale diversita'  di
trattamento  sia  assistita  da  alcuna   logica,   se   non   quella
(verosimile) di favorire alcuni operatori commerciali (le banche)  in
danno degli utenti. 
    3.3. Introduzione di un'inammissibile disparita'  di  trattamento
tra  somme  versate  indebitamente,  rispettivamente,  prima  e  dopo
l'entrata  in  vigore  della  legge  di  conversione   del   presente
decreto-legge. 
    Come gia' evidenziato la norma censurata  prevede  che  «in  ogni
caso non si fa luogo alla restituzione di importi gia'  versati  alla
data di entrata in vigore della legge  di  conversione  del  presente
decreto-legge». 
    Si e' detto della  possibile  lettura  alternativa  della  norma,
peraltro, coerente con la sua portata retroattiva, ovvero  precludere
al  cliente  l'azione  di  ripetizione  («non  si   fa   luogo   alla
restituzione») delle somme gia' indebitamente corrisposte alla banca. 
    Orbene,  la  censurata  paralisi   dei   poteri   sostanziali   e
processuali di tutela degli utenti del sistema bancario e'  destinata
a operare per le sole somme gia' versate  alla  data  di  entrata  in
vigore della legge di conversione del presente decreto -  legge,  con
conseguente  introduzione  di  una  ingiustificata  compressione  del
diritto  di  ripetere  l'indebito  per  chi  abbia  posto  in  essere
pagamenti fino alla suddetta soglia temporale, e non  anche  per  chi
non versi ancora nella predetta situazione giuridica. 
    Anche in tale caso,  si  differenzia  il  regime  riservato  alla
medesima situazioni giuridica  (ovvero  il  pagamento  di  somme  non
dovute) sulla base di un mero dato temporale, senza che  tale  scelta
trovi  fondamento  in  un  equilibrato  contemperamento  dei   valori
costituzionali in gioco. 
    4. Violazione del principio del giusto processo ex art. 111 Cost. 
    La norma viola anche l'art. 111 Cost., che  costituzionalizza  il
principio del giusto processo, sub specie della parita' delle «armi».
Infatti, limitatamente ai processi gia' pendenti, la  norma  de  qua,
supportata da  un'espressa  previsione  di  retroattivita',  viene  a
sancire -  se'  non  altro  nelle  ipotesi  in  cui,  dalle  indebite
annotazioni della banca, sia gia' decorso un decennio -  la  paralisi
processuale di chi abbia agito in giudizio,  esperendo  un'azione  di
ripetizione  d'indebito,  realizzando  cosi'  un  vulnus   ben   piu'
pregnante di un mero (e, di per se', censurabile) sbilanciamento trai
diritti contrapposti delle parti. 
    5. Violazione dell'art. 117, primo  comma,  cost.,  in  relazione
all'art.
6 della convezione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo 
e delle                                                      liberta'
fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955,
n. 848. 
    Tale norma internazionale, che sancisce il diritto ad  un  giusto
processo dinanzi ad un tribunale indipendente ed  imparziale,  impone
al legislatore di uno Stato  contraente,  nell'interpretazione  della
Corte Europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, di non interferire
nell'amministrazione della  giustizia  allo  scopo  d'influire  sulla
singola causa o su di  una  determinata  categoria  di  controversie,
attraverso  norme  interpretative  che  assegnino  alla  disposizione
interpretata  un  significato   vantaggioso   per   una   parte   del
procedimento,  salvo  il  caso  di  «ragioni  imperative  d'interesse
generale». 
    Il legislatore nazionale ha emanato una norma interpretativa,  in
presenza di un notevole contenzioso e di un orientamento della  Corte
di cassazione, sfavorevole alle banche, cosi' violando  il  principio
di  «parita'  delle  armi»,  non   essendo   prefiguratili   «ragioni
imperative d'interesse  generale»  che  permettano  di  escludere  la
violazione del divieto d'ingerenza. 
    Pare  opportuno  precisare,  in  linea  preliminare,  quale  sia,
secondo la giurisprudenza delle  Corte  costituzionale,  il  rango  e
l'efficacia delle norme della CEDU ed il ruolo, rispettivamente,  dei
giudici nazionali e della Corte di  Strasburgo,  nell'interpretazione
ed applicazione della Convenzione europea. 
    Siffatta tematica e' stata oggetto di  disamina  da  parte  delle
sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, le quali hanno rilevato che l'art.
117, primo comma, Cost., ed in  particolare  l'espressione  "obblighi
internazionali"  in  esso  contenuta,   si   riferisce   alle   norme
internazionali convenzionali  anche  diverse  da  quelle  contemplate
dagli arti. 10 e 11 Cost. 
    Dunque, l'art. 117, primo comma,  Cost.,  cosi'  interpretato  ex
novo,  ha  consentito  di  rinvenire  un  fondamento   costituzionale
all'osservanza degli obblighi internazionali pattizi. 
    Ne consegue che il contrasto di una norma nazionale con una norma
convenzionale, in particolare della CEDU, e' idoneo a  dar  luogo  ad
una violazione (mediata) dell'art. 117, primo comma, Cost. 
    Infatti,  la  clausola  del  necessario  rispetto   dei   vincoli
derivanti dagli obblighi internazionali, dettata dall'art. 117, primo
comma, Cost., attraverso un meccanismo di rinvio mobile  del  diritto
interno  alle  norme  internazionali  pattizie  di  volta  in   volta
rilevanti, impone, infatti, il controllo di  costituzionalita'  della
norma  interna,  qualora  il  giudice  comune  ritenga  lo  strumento
dell'interpretazione insufficiente ad eliminare il contrasto. 
    Infatti, il giudice nazionale  -  cui,  nella  veste  di  giudice
comune della Convenzione, compete di  applicare  le  relative  norme,
nell'interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo -  nel  caso
in cui si profili un contrasto tra una  norma  interna  e  una  norma
della  Convenzione  europea,  deve,  in  primis,  procedere  ad   una
interpretazione  della  prima  conforme   a   quella   convenzionale.
Ovviamente, la norma della CEDU non prevarra' nella sola  ipotesi  in
cui la stessa, nell'interpretazione  data  dalla  Corte  Europea,  si
ponga in conflitto con altre norme della nostra Costituzione.  Quando
ricorra  tale  ipotesi,   pure   eccezionale,   si   deve   escludere
l'operativita' del rinvio alla norma internazionale e, dunque, la sua
idoneita' ad integrare  il  parametro  dell'art.  117,  primo  comma,
Cost.;  e,   non   potendosi   evidentemente   incidere   sulla   sua
legittimita', comporta - allo stato - l'illegittimita', per quanto di
ragione, della legge di adattamento (sentenze n. 348  e  n.  349  del
2007). 
    Soltanto  quando  ritiene  che  non  sia  possibile  comporre  il
contrasto in via interpretativa, il giudice comune  -  il  quale  non
puo' procedere all'applicazione della norma della CEDU (allo stato, a
differenza di quella comunitaria provvista  di  effetto  diretto)  in
luogo di quella interna contrastante, tanto meno fare applicazione di
una norma interna che egli stesso abbia ritenuto in contrasto con  la
CEDU, e pertanto con la Costituzione - deve sollevare la questione di
costituzionalita' (anche sentenza n. 239 del 2009),  con  riferimento
al  parametro  dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  ovvero   anche
dell'art. 10,  primo  comma,  Cost.,  ove  si  tratti  di  una  norma
convenzionale ricognitiva di una  norma  del  diritto  internazionale
generalmente riconosciuta. 
    Orbene, si ritiene che, in questo specifico caso, anche in virtu'
del carattere univoco della disposizione censurata, non sia possibile
un'interpretazione  della  stessa  conforme  a  quella  convenzionale
internazionale (art. 6 Cedu). 
    Cio' premesso, si ricorda la decisione relativa al  caso  Scanner
de L'Ouest Lyonnais e altri c. Francia, del 21 giugno  del  2007,  in
occasione della quale, la Corte europea ha ribadito che,  mentre,  in
linea di principio, al legislatore non  e'  precluso  intervenire  in
materia civile, con nuove disposizioni retroattive, su diritti  sorti
in base alle leggi vigenti, il principio dello Stato di diritto e  la
nozione di processo equo sancito clan' articolo 6 della CEDU  vietano
l'interferenza del legislatore nell'amministrazione  della  giustizia
destinata a influenzare l'esito della controversia,  fatta  eccezione
che per motivi imperativi di interesse  generale  («imperieux  motifs
d'interet general»). 
    Infatti, il requisito della parita' delle armi comporta l'obbligo
di dare alle parti una  ragionevole  possibilita'  di  perseguire  le
proprie azioni giudiziarie,  senza  essere  poste  in  condizione  di
sostanziale svantaggio rispetto agli avversari. 
    In virtu' del suddetto orientamento (che trova i suoi  precedenti
nei casi Raffineries Grecques Stran e Stratis Andreadis c. Grecia del
9 dicembre 1994, e Zielinski e altri c. Francia, del 28 ottobre 1999)
deve considerarsi violativa dell'art. 6 Cedu, la prassi di interventi
legislativi sopravvenuti, che modifichino retroattivamente, in  senso
sfavorevole per gli interessati, le disposizioni di legge attributive
di diritti, la cui lesione abbia dato  luogo  ad  azioni  giudiziarie
ancora pendenti all'epoca della modifica. 
    Questa  prassi  puo'  essere  suscettibile  di   comportare   una
violazione  dell'art.  6  della  CEDU,  risolvendosi  in  un'indebita
ingerenza   del   potere   legislativo   sull'amministrazione   della
giustizia. 
    In particolare, nel caso Zielinski e  altri  c.  Francia,  si  e'
riaffermato il principio che  nega  ogni  indebita  interferenza  del
legislatore, fatta salva la  sussistenza  di  «motivi  imperativi  di
interesse generale». 
    La Corte europea, tuttavia, ha precisato che siffatti motivi  non
ricorrevano nella specie, in  quanto  il  mero  rischio  finanziario,
denunciato  dal  Governo  ed  espressamente  indicato   dalla   Corte
costituzionale, non consentiva di  per  se'  che  il  legislatore  si
sostituisse alle parti sociali del contratto collettivo, oggetto  del
contenzioso. 
    Per  contro,  la  legittimita'  di  simili  interventi  e'  stata
riconosciuta, solo quando  ricorrevano  ipotesi  eccezionali  ed,  in
primo  luogo,  ragioni  "storiche  epocali",  come  nel  caso   della
riunificazione tedesca (caso Forrer-Niederthal c. Germania,  sentenza
del 20 febbraio 2003). 
    In questo caso, la Corte europea, di  fronte  ad  una  norma  che
faceva salvi con effetto retroattivo i trasferimenti  di  proprieta',
senza indennizzo, in «proprieta' del  popolo»  della  ex  D.D.R.,  ha
concluso  per  la  compatibilita'  dell'intervento   con   la   norma
convenzionale; cio' non soltanto per il motivo  "epocale"  del  nuovo
riassetto dei conflitti patrimoniali conseguenti alla riunificazione,
ma anche in considerazione della sussistenza effettiva di un  sistema
che aveva garantito alle parti, che  contestavano  le  modalita'  del
riassetto, l'accesso a, e lo  svolgimento  di,  un  processo  equo  e
garantito. 
    Al riguardo, la Corte europea ha riconosciuto che  il  ricorrente
aveva avuto accesso a tribunali indipendenti avvicendatisi  nei  vari
gradi, e soprattutto all'organo di giustizia costituzionale,  sicche'
ha osservato che «nel suo complesso», il  procedimento  in  questione
aveva rivestito i caratteri di equita',  conformi  al  dettato  dell'
art. 6, paragrafo 1, della CEDU. 
    In altri casi, nello specificare la sussistenza o meno dei motivi
imperativi d'interesse generale, la Corte di Strasburgo  ha  ritenuto
legittimo l'intervento del legislatore che,per porre rimedio  ad  una
imperfezione tecnica della legge interpretata, aveva  inteso  con  la
legge  retroattiva,  ristabilire  un'interpretazione  piu'   aderente
all'originaria volonta' del legislatore. 
    Si tratta, in primo luogo, della sentenza 23  ottobre  1997,  nel
caso National & Provincia! Building Society, Leeds Permanent Building
Society e Yorkshire  Building  Society  e.  Regno  Unito  (utilizzata
mutatis mutandis anche nella citata  pronuncia  Forrer-Niederthal  c.
Germania), nella quale  e'  stato  ritenuto  che  l'adozione  di  una
disposizione  interpretativa  puo'  essere  considerata  giustificata
allorche' lo Stato, nella logica di interesse generale  di  garantire
il pagamento delle imposte, abbia inteso porre rimedio al rischio che
l'intenzione  originaria  del  legislatore  fosse,  in   quel   caso,
sovvertita da disposizioni fissate in circolari. 
    Nello stesso solco si  pone  la  sentenza  del  27  maggio  2004,
Ogis-institut Stanislas, Ogec Si Pie X e Bianche De Castille e  altri
c. Francia, in cui le  circostanze  del  caso  di  specie  non  erano
identiche a quelle del caso Zielinski del 1999. 
    La pronuncia ha affermato che l'intervento  del  legislatore  non
aveva inteso  sostenere  la  posizione  assunta  dall'amministrazione
dinanzi ai giudici, ma porre rimedio ad un errore tecnico di diritto,
al fine di garantire la  conformita'  all'intenzione  originaria  del
legislatore, nel rispetto di un principio di perequazione. 
    Il caso viene, quindi, assimilato a quello National &  Provincial
Building Society del 1997,  dove  l'intervento  del  legislatore  era
giustificato  dall'obiettivo   finale   di   «riaffermare   l'intento
originale del Parlamento». La Corte  ha  ritenuto  che  la  finalita'
dell'intervento legislativo  fosse  quindi  quella  di  garantire  la
conformita' all'intenzione originaria del legislatore a  sostegno  di
un  principio  di  perequazione,  aggiungendo  che  gli  attori   non
avrebbero  potuto  validamente  invocare  un  "diritto"  tecnicamente
errato o carente, e dolersi quindi  dell'intervento  del  legislatore
teso a chiarire i requisiti ed i limiti  che  la  legge  interpretata
contemplava. 
    In  considerazione   dei   suddetti   principi,   nonche'   della
ricostruzione  della  portata  e  degli  obiettivi  della  norma  qui
censurata, e' evidente il contrasto della stessa con l'art.  6  della
Cedu. 
    Infatti, non ricorrono , nel caso di specie,  «motivi  imperativi
di interesse generale», quali enucleati  dalla  giurisprudenza  della
CEDU, sub specie di  eventi  di  carattere  storico-epocale;  ne'  e'
ragionevolmente sostenibile che, con la disposizione de qua,  si  sia
voluta assicurare l'originaria volonta'  del  legislatore  che,  come
gia'  evidenziato,  ha  omesso  di  disciplinare   espressamente   la
prescrizione di diritti, connessi ai rapporti bancari, indirettamente
rinviando ad una norma di carattere generale, ai principi  regolativi
della materia delle obbligazioni, nonche' alla funzione  e  struttura
delle singole operazioni bancarie. 
    5.                                               Violazione delle
funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario ex
articolo 101, 102, 104 cost. 
    La Corte costituzionale ha ripetutamente affermato  il  principio
secondo cui il legislatore vulnera le funzioni giurisdizionali quando
la  legge  sia  intenzionalmente  diretta  ad  incidere  su  concrete
fattispecie sub judice" (cfr. Corte Cost. nn. 397/94,  6/94,  429/93,
424/93, 283/93, 39/93, 440/92, 429/91 ed altre). Si  tratta,  allora,
di stabilire  se  la  statuizione  contenuta  nella  norma  censurata
integri effettivamente i requisiti del precetto di fonte legislativa,
come tale dotato dei  caratteri  della  generalita'  ed  astrattezza,
ovvero sia diretto ad incidere su concrete fattispecie  "sub  judice"
e, come piu' volte ribadito, a vantaggio di una delle due  parti  del
giudizio.